In questi ultimi anni l’architettura contemporanea è chiamata a ripensare strumenti, temi e obiettivi per fare fronte a una radicale e, a volte, drammatica trasformazione del paesaggio metropolitano su scala globale. Lo stato diffuso di crisi, oltre a mettere in discussione molte delle strategie e delle parole chiave del XX secolo, si fa portatore di desideri e domande inedite, spesso spiazzanti, a cui anche l’architettura è chiamata a portare risposte utili e urgenti. In Italia, come nella maggior parte dei paesi europei, una nuova generazione di professionisti e di studi di architettura sta cercando, lentamente, di fare ricerca e di offrire risposte a questa fase storica incerta e densa di nuove occasioni spostando progressivamente l’attenzione sul progetto di architettura non come semplice produzione di forme, ma come strumento di ripensamento del paesaggio antropizzato e naturale. Lo studio Archea, fondato a Firenze nel 1988 da Laura Andreini, Marco Casamonti e Giovanni Polazzi, è una di quelle nuove realtà professionali nel campo dell’architettura italiana e internazionale, che sta sviluppando questa linea di ricerca, tentando continuamente una difficile, ma non impossibile, mediazione tra un’italianità del fare e la consapevolezza di essere inseriti in un mercato sempre più globalizzato. Tra i primi studi italiani della cosiddetta “nuova generazione” ad aprire sedi all’estero, prima a Pechino e quindi a Dubai, lo studio Archea è stato subito immaginato come una struttura orizzontale in cui le diverse competenze e specificità si combinano mutevolmente nella produzione di progetti a diversa scala. Mentre è importante sottolineare come, a partire dal 1997 con la fondazione della rivista Area da parte di Marco Casamonti, l’attività progettuale sia stata sviluppata in perfetta integrazione con l’attività editoriale e curatoriale nel campo della cultura architettonica definendo un circolo virtuoso importante che legasse teoria, ricerca e progetto. A partire dai primi lavori costruiti, lo studio Archea ha dimostrato una notevole coerenza e ossessività nella definizione di alcuni elementi che definissero una impronta di fabbrica dello studio, e che da subito li ha confermati come una delle realtà emergenti più interessanti sulla scena italiana. Dalla discoteca Stop-Line di Curno (1993-95) passando per la casa di Leffe (1997-99), la riorganizzazione di via Tirreno a Potenza (2000), le barriere acustiche lungo la tangenziale di Firenze (2000-2007), il campeggio Albatros a San Vincenzo (2006-2009), le due biblioteche a Curno (1996-2000) e Nembro (2002-2007), il rinnovamento della fabbrica Perfetti a Lainate (2005-2009) fino ad arrivare alle nuove cantine Antinori vicino a Firenze (2004-2012) possiamo ricostruire la presenza di una serie di elementi che non si traducono in un linguaggio codificato, quanto piuttosto in un approccio complessivo che rivela alcuni importanti elementi di continuità. Tutte queste opere si pongono costantemente il tema della relazione con i luoghi e il terreno su cui poggiano, cercando un radicamento fisico che passa soprattutto attraverso la gamma dei materiali utilizzati e delle cromie dense e naturali. La pasta dell’architettura è lavorata attraverso l’uso forte, a volte ossessivo, di materie che definiscono l’identità stessa del progetto e la volontà di legare l’architettura al suolo, radicandolo in maniera quasi arcaica. Gli ocra densi dei cementi di Potenza, i bambù intrecciati di Livorno, gli elementi dinamici in terracotta lungo l’autostrada fiorentina, le ceramiche rosse frangisole di Nembro, oltre ad essere un tentativo fortemente contemporaneo di costruire dialoghi con le materie della Natura, diventano anche una strada inaspettata su come interpretare una certa italianità del progetto rileggendo le sue materie antiche. A questo si combina una forte attenzione al contesto storico e ambientale presente che lega l’attività di Archea ad alcune delle esperienze più vitali e stimolanti dell’architettura italiana degli anni Cinquanta e Sessanta, in cui il tema della continuità con i luoghi e le loro storie diventa materia di riflessione progettuale e poetica. In questi ultimi anni la ricerca dello studio e le diverse occasioni che in Italia e nel mondo sono arrivate hanno aumentato la consapevolezza che il progetto deve rispondere alla necessità di dare identità nuova ai luoghi in cui è immaginato. La visione dell’architettura come nuovo landmark diventa progressivamente un altro carattere fortemente distintivo dello studio fiorentino seguendo una strada tracciata da alcuni maestri dell’architettura italiana del secondo Novecento, che hanno progressivamente spostato l’attenzione dell’architettura come oggetto autonomo all’architettura come frammento attivo del paesaggio metropolitano. Confrontandosi sempre di più con contesti anonimi e senza alcun carattere definito, all’architettura di qualità è richiesta una consapevolezza sempre più radicale che ogni nuovo intervento deve rifondare il luogo in cui è calato, riportando senso e qualità estetica e spaziale al territorio. Con la nuova torre residenziale di Tirana, oppure con l’intervento potentissimo e imprevedibile delle cantine Antinori e con il mastodontico complesso per la ceramica di Li Ling, l’architettura compie un salto di scala rischioso e necessario, vista la gamma dei temi e delle complessità che deve affrontare. Ma, insieme, questi progetti indicano delle traiettorie possibili nell’affrontare problemi e commesse che sfidano il territorio per ambizione programmatica e grandezza strutturale. Con l’apertura dello studio in Cina pochi anni fa, Archea ha compiuto un salto programmatico che ha portato questa nuova realtà italiana in uno dei cuori caldi dello sviluppo metropolitano mondiale. E le prime risposte, con il padiglione realizzato per l’Expo di Shanghai, e il progetto in corso d’opera per il centro ceramico di Li Ling dimostrano come lo studio italiano stia utilizzando questa occasione come un laboratorio di sperimentazione e ricerca piuttosto che come “mercato” in cui esportare un linguaggio di facile consumo. Credo che questa sia la direzione necessaria per l’architettura che non voglia appiattirsi su stereotipi superficiali ma che invece guardi a questo mondo in profonda metamorfosi come ad un’occasione di ascolto e di sperimentazione attiva. Si tratta di una dimensione inquieta e necessariamente instabile che credo verrà premiata da occasioni e da sfide che potranno dare la possibilità a studi come Archea di offrire un contributo inedito a un mondo che chiede visioni aperte e spiazzanti per il prossimo futuro.

Luca Molinari

 

 

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