Fin dagli albori della modernità, l’architettura ha giocato un ruolo strategico nel rappresentare il mondo dell’industria, traducendo in forma costruita i valori della produzione, del progresso e dell’innovazione. Le grandi fabbriche del primo Novecento non erano solo spazi per la manifattura: erano dispositivi ideologici, segni nel paesaggio urbano e sociale di un nuovo ordine economico. Emblematico, in questo senso, il caso del Lingotto di Torino, progettato tra il 1916 e il 1923 da Giacomo Matté-Trucco per la Fiat: un’architettura che riprendeva i principi razionali delle avanguardie europee, introducendo un sistema distributivo verticale e una pista di collaudo sul tetto, in un’esaltazione quasi mitica della macchina e della velocità. Qualche decennio più tardi, negli Stati Uniti, Frank Lloyd Wright reinventava la tipologia della sede aziendale con la Johnson Wax Administration Building (1936- 1939): un capolavoro organico in cui l’identità aziendale si materializzava in forme spaziali radicali, dalle colonne a fungo alla luce diffusa delle cupole di vetro. In entrambi i casi, l’edificio non si limitava a servire un’esigenza funzionale, ma esprimeva una visione: l’industria come cultura, l’impresa come narrazione. Ma forse nessuna esperienza storica ha saputo interpretare questa visione in modo tanto profondo e coerente quanto quella di Olivetti. Sotto la guida illuminata di Camillo Olivetti prima e di Adriano poi, la città-fabbrica di Ivrea divenne un modello avanzatissimo di sinergia tra architettura, design, arte e produzione. Architetti come Figini e Pollini, Ridolfi, Gabetti e Isola, Gino Valle – e persino Carlo Scarpa, autore dello straordinario negozio Olivetti in Piazza San Marco a Venezia – furono coinvolti in un disegno culturale complesso, in cui ogni spazio, dal padiglione industriale all’arredo urbano, diventava espressione della visione umanistica dell’impresa. A questo si aggiunge il contributo di Ettore Sottsass, che rivoluzionò il linguaggio dei prodotti Olivetti trasformando le macchine da scrivere e i primi computer in oggetti di design iconico. Qui, più che altrove, il concetto di “contenitore” e “contenuto” si fonde in un ecosistema estetico e produttivo che rappresenta tutt’oggi uno degli apici mondiali del rapporto tra impresa e cultura del progetto. Nel corso del secondo Novecento, e ancor più nel XXI secolo, questo rapporto si è trasformato, estendendosi dai luoghi della produzione ai territori del brand. L’architettura ha assunto un ruolo comunicativo, diventando uno degli strumenti principali per costruire l’immagine, la reputazione e l’identità delle imprese.

Non più (o non solo) fabbriche, ma sedi direzionali, showroom, flagship store, archivi, padiglioni temporanei: una galassia di tipologie in cui il progetto diventa parte integrante della strategia di marca. I casi più emblematici si trovano spesso nel mondo della moda e del lusso, dove il linguaggio architettonico è chiamato a riflettere con precisione millimetrica l’universo simbolico del brand. Il Tod’s Building di Toyo Ito a Tokyo, con la sua trama strutturale ispirata agli alberi di Omotesando, restituisce la sensibilità naturale e artigianale del marchio italiano. La Maison Hermès progettata da Renzo Piano, sempre a Tokyo, si presenta come un monolite traslucido, rigoroso e al tempo stesso leggero, espressione di una sobria eleganza che rispecchia i valori della maison francese. Ma il processo può anche rovesciarsi: in alcuni casi, è proprio l’architettura a contribuire a costruire l’identità del brand. La collaborazione tra Rem Koolhaas e Prada ha inaugurato un modello in cui il progetto diventa campo di sperimentazione, capace di riflettere e alimentare la visione del brand ben oltre il prodotto. Lo stesso vale per Apple, il cui campus ad anello disegnato da Norman Foster non è soltanto una sede operativa, ma una dichiarazione ideologica: un’architettura perfetta, minimale, iconica, che incarna l’ossessione del brand per la purezza formale e la coerenza estetica.

Questo numero di Area nasce dalla consapevolezza che oggi l’architettura non è più semplice contenitore, ma parte integrante del contenuto. Quando un’azienda sceglie di investire nella qualità dei propri spazi, afferma implicitamente di aver raggiunto una maturità di prodotto tale da potersi occupare anche del “fuori”, dei suoi contenitori, dal packaging agli edifici. È un segnale di visione, di cultura, di desiderio di perseguire la qualità totale. Il progetto architettonico diventa così un’interfaccia tra il mondo interno dell’impresa e quello esterno della società. Una soglia, uno spazio di mediazione in cui si condensano valori, atmosfere, stili di vita. In un’epoca dominata dalla comunicazione visuale e dall’esperienza immersiva, l’architettura assume un ruolo centrale nel racconto delle imprese, contribuendo non solo a ospitare ma anche a generare identità.

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