Rivista internazionale di architettura e arti del progetto maggio/giugno 2014

Il valore della committenza
Con un complesso quanto contraddittorio parallelo di genere spesso si paragona l’architetto, per quanto in Italia il termine sia declinato al maschile, alla madre e il committente, o meglio la committenza, nella nostra lingua sostantivo femminile, al padre di una qualsiasi architettura o opera: la quale, di conseguenza, appare figlio, anzi figlia, poiché entrambi i termini sono in italiano femminili, dei primi due. Al di là delle contese linguistico grammaticali sul sul sesso degli angeli, data scontata, per l’architettura, una dimensione etico-onirica legata alla vocazione a migliorare la vita delle persone, alla ricerca dell’armonia e del bello (si sarebbe detto un tempo), conviene forse concentrare l’attenzione sull’importanza della reciprocità che lega il rapporto tra architettura e committenza: secondo un legame duale che vincola il risultato al livello culturale, di conoscenza e competenza, che investe tanto chi commissiona un’opera, quanto chi la progetta. Con il monito, titolo del suo libro più letto, Amate l’architettura, Gio Ponti intendeva proprio riferirsi a tutti, cioè progettisti, promotori ed utenti, attribuendo l’interesse per l’opera al ruolo comune dei diversi attori che congiuntamente costituiscono due facce della stessa medaglia. I critici e sovente i castigatori della categoria degli architetti sostengono con qualche ragione che, oltre i meriti, le responsabilità di una data opera ricada più sull’architetto che sul committente, anche perché se il committente non è colto o peggio incapace, o di comprovato cattivo gusto, al progettista, libero professionalmente, resta la possibilità del rifiuto e del diniego dell’incarico. Tuttavia se ciò è vero in linea di principio, non salva il territorio dal disastro perché vi sarà sempre qualcuno disponibile a costruire finte Venezie in Cina o negli Stati Uniti, copie di San Pietro in Africa e torri Eiffel ovunque nel globo. È vero viceversa il contrario, e cioè che anche opere di straordinario valore architettonico possono, anzi purtroppo spesso sono, private proprio dai committenti o dai proprietari successivi del dovuto rispetto, delle necessarie cure e manutenzioni: lasciando andare in rovina, spesso anzi demolendo, molti e importanti capolavori, tant’è vero che nei paesi più avanzati i governi istituiscono opportuni enti di tutela. Risulterebbe allora appropriato il consumato parallelo familiare dove il padre committente mette il seme (la necessità o volontà, l’energia, il denaro), il progettista lo raccoglie e, con gestazioni variabili, più o meno lunghe, dà alla luce il risultato del loro reciproco incontro che è il progetto ma, sappiamo, non ancora l’architettura, che invece è il prodotto finale in carne ed ossa. In effetti la questione è diversa e ben più complessa del ciclo imposto secondo le regole della riproduzione della specie perché, se nelle fasi iniziali tutto appare come in natura, e cioè paragonabile al gradimento dei partner all’accoppiamento consenziente, successivamente entrano nelle trasformazioni urbane piccole o grandi che siano, molti fattori e protagonisti: il rispetto delle regole del costruire, non sempre congruenti o finalizzate all’ottenimento del miglior risultato possibile, la capacità realizzativa del costruttore, che recita un ruolo decisivo rispetto all’esito finale dell’architettura, il livello culturale e sociale degli eventuali futuri proprietari, diversi dal committente iniziale, nel manutenere e gestire il bene, oltre alla congruenza di ciò che viene realizzato nell’intorno, giacché un’architettura non vive isolata ma si alimenta e si rispecchia nel suo contesto di riferimento sia esso urbano che naturale, contesto con cui, evidentemente, interagisce nell’immediato e nel tempo. Gli affezionati del parallelo tra architettura e natura che dal capitello corinzio ad oggi continuano a mescolare le carte, sostengono che anche un figlio può rovinarsi: cattive amicizie, scuole sbagliate, eventi accidentali, imprevedibili problemi di salute o al contrario avere una vita facile e felice, proprio come per l’architettura. E allora torniamo pure alla metafora del padre e della madre: in fondo cosa c’è di più importante? A noi architetti va bene così anche se la condizione, come è noto, è necessaria ma non sufficiente!

Marco Casamonti

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