Rivista internazionale di architettura e arti del progetto settembre/ottobre 2019

Re-use
È sempre utile studiare l’etimologia e il significato delle parole che usiamo affinché la consuetudine del linguaggio trovi anche nella semplice rilettura del dizionario la verifica di quei termini che pronunciamo quotidianamente nell’esercizio del mestiere di architetto. Molte di queste, ad esempio “Riuso” sono il risultato di una attività progettuale sul piano letterario giacché scaturiscono dalla “composizione” di termini o parole, in questo caso specifico dal suffisso ri- “di nuovo” e il verbo “usare”, in grado di svelare un comportamento o un’attività, nello specifico: Uso nuovo, ulteriore; recupero, reimpiego. Recuperare, ricostruire, riciclare, riadattare, smontare e rimontare sono pratiche architettoniche comuni legate ad un’intelligenza profonda e popolare – soprattutto in Italia – un sapere antico che sfugge alla logica del puro consumo introducendo nel progetto, e quindi nella città, il tema della durata, della trasformazione, della rigenerazione, del rispetto delle risorse disponibili. Argomenti un tempo indotti dalla carenza di risorse ed oggi necessari, all’opposto, per la sovrabbondanza di mezzi e strumenti che con inquietante rapidità consumano l’ambiente, il suolo, l’aria, il clima. Paradossalmente siamo costretti a prendere coscienza del fatto che non è soltanto la povertà e la carenza di mezzi a disposizione di cui dobbiamo occuparci, ma anche di quella bulimia comportamentale conseguente alla disponibilità smisurata di petrolio – fino a pochi anni si pensava che le scorte si sarebbero presto esaurite viceversa si continuano a trovare nuovi giacimenti – e dei suoi infiniti e dannosissimi derivati, dell‘eccessiva quantità di rifiuti e, nel nostro campo specifico, di una capacità di edificare – e quindi di consumare suolo – che non ha avuto uguali nella storia. Fortunatamente il dibattito e la consapevolezza sull’argomento sono ampiamente maturi come dimostrano molte scelte di politica urbanistica che nelle aree più sviluppate del pianeta disincentivano o addirittura vietano le nuove edificazioni privilegiando il recupero del patrimonio edilizio esistente, la rigenerazione urbana, la trasformazione funzionale, addirittura la “crescita introspettiva” che ha il suo fulcro nei piani regolatori a “volume zero” cioè incompatibili con ulteriori ipotesi espansive. E se in passato, come ricordato da Alessandro Massarente nel suo saggio pubblicato nelle pagine a venire, esistono interessanti analogie e sperimentazioni convincenti di ri-uso, smontaggio e rimontaggio di parti di edifici in altri edifici a seguito di interventi quasi sempre motivati da carenza di finanziamenti, oggi tale pratica si rende indispensabile poiché la risorsa che scarseggia non è di natura economica ma la natura stessa, intesa come equilibrio ambientale e disponibilità di suolo. Costruire sul già costruito è quindi una necessità che introduce il tema dell’etica nella politica urbanistica e nel settore delle costruzioni. Una condizione operativa che conseguentemente influenza il dibattito e le riflessioni sul progetto di architettura quale disciplina che a questo punto deve considerare come base di partenza non soltanto il suolo, quanto le preesistenze, un’arte che ha già, secondo Morris, abbracciato tutte le modificazioni della crosta terrestre eccetto il puro deserto, e che adesso deve confrontarsi e misurarsi con ciò che ha già modificato e costruito nei secoli. È ovvio e del tutto evidente che intervenire sul e nell’esistente comporta un’attenta lettura dei fatti urbani – per dirla con Aldo Rossi – e del contesto, ma a questo deve aggiungersi la valutazione attenta del manufatto di partenza che si attende modificare. Si tratta cioè di mescolare le carte dei confini disciplinari e comprendere che restauro, recupero e progetto sono divenuti sinonimi e campi assolutamente sovrapponibili. La rivista si occupa da anni di promuovere ricerche e studi in questa direzione a partire dal giugno del 1997 (Area n°32 – Costruire sul costruito) con il primo numero a carattere monografico, oggi il nostro tratto distintivo, dedicato al tema del restauro o meglio del rapporto, in architettura, tra nuovo e preesistenze. Da allora, ricordo a titolo di sommaria bibliografia interna, il numero sul riuso dell’antico (Area 45 – Restauro, riuso, trasformazioni), gli approfondimenti sull’addizione e trasformazione di edifici storici e moderni (Area 148 – Addition) fino agli interessanti interventi sulle aree marginali, o interstiziali, delle città post-industriali sempre più complesse da gestire ed amministrare. Le modificazioni (affrontate in Area n° 91 – Convertible) del patrimonio edilizio comportano anche un serio programma politico e legislativo sia a livello nazionale che locale volto alla salvaguardia del territorio e al recupero e alla trasformazione di edifici esistenti, siano essi di carattere industriale che abitativo. Questo insistere su di una linea culturale e quindi editoriale della rivista conferma la consapevolezza che una decisa azione di valorizzazione del patrimonio costruito può realizzare vantaggi di assoluta evidenza: riduzione in primis del consumo di suolo, diminuzione dei costi per infrastrutture e mobilità, densificazione dei contesti urbani quali miglioramenti della qualità della vita e calo dell’inquinamento ambientale. Fortunatamente su questa linea si muovono gran parte dei protagonisti del dibattito architettonico e delle istituzioni pubbliche o private come dimostra la vittoria del progetto Grand Parc Bordeaux dello studio francese Lacaton & Vassal al Mies van der Rohe Award 2019. Un interessante intervento di riqualificazione abitativa su un edificio popolare costruito negli anni Sessanta dove l’elemento di aggiunta nella facciata ha la funzione di implementare la superficie delle singole unità che diminuire la dispersione termica dell’edificio. Non un nuovo edificio, non è un caso, ma una scelta precisa che ci sentiamo di sostenere e incoraggiare.

Laura Andreini

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