L’arte per l’arte 

Se l’architettura è arte e viene concepita, quindi fruita, come tale, allora quando è dedicata all’abitare dell’arte stessa, dal museo alla galleria, si pone il delicato problema del rapporto tra contenitore e contenuto, tra esistenza e sconfinamenti. Sulla prima affermazione – e cioè sulla certezza che la disciplina dell’architettura debba appartenere al novero delle arti che si servono della tecnica del costruire ed altre professionalità strumentali per potersi esprimere – non vi sono, a giudizio di chi scrive, dubbi (vedi Area 109, “Art and Architecture“ marzo/aprile 2010). Pertanto lo spartiacque tra l’architettura e la semplice edilizia non risiede nella consistenza fisica della stessa, quanto nel suo valore intenzionale e narrativo, distinzione per altro già chiarita da molti artisti e che ha il suo apice nella ruota di bicicletta o nel sanitario che hanno tentato tanto le evocazioni di Marcel Duchamp (1917) quanto visioni più recenti come quella di Claes Oldenburg (1966) fino alla certificazione aurea di Maurizio Cattelan. Ma è la seconda questione è vero, come ribadito, che l’architettura è arte, è anche assolutamente vero che l’architettura sia, per eccellenza, l’arte dell’abitare. Rimane allora da accertare cosa accade quando è abitata da se stessa, cioè ancora dall’arte: è il caso di tutti i luoghi immaginati, disegnati e costruiti, per la fruizione dell’arte. Il cortocircuito si interrompe immediatamente proprio in relazione alla centralità dell’abitare e quindi della presenza della vita delle persone attorno o dentro l’architettura. Bruno Zevi, sull’onda del pensiero wrigthiano, aveva risolto la questione introducendo il tema dello spazio esperibile, in assenza del quale, l’architettura perde i suoi connotati disciplinari ed assurge al ruolo di scultura. Tale intuizione, che per Zevi rappresenta in assoluto un’affermazione di principio, ci aiuta a comprendere e risolvere anche il rapporto tra contenitore e contenuto nei luoghi d’arte poiché, nel caso di specie, non è l’arte in sé la finalità del progetto, quanto la possibilità di compiere attraverso lo spazio costruito un’esperienza contemplativa e conoscitiva. In tal senso all’architettura è richiesta l’attenta rispondenza alle finalità oggettive del progetto e quindi la ricerca di quel difficile equilibrio teso a non limitare, sul piano espressivo, l’arte costruita purché sia costruita in maniera evidente per rendere migliore, suadente ed efficace la percezione dell’arte ivi contenuta. In definitiva l’arte per l’arte. Il massimo per l’architetto, purché sappia comprendere, come sostenuto da Immanuel Kant, che la sua arte è un arte di servizio, una dimensione che non penalizza l’architettura, anzi la esalta come l’arte per la vita delle persone. 

Marco Casamonti

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