Rivista internazionale di architettura e arti del progetto maggio/giugno 2016

Architecture for all
Il progetto, come è noto, non è un atto autoreferenziale e introspettivo, si tratta viceversa della risoluzione di un quesito posto da esigenze e necessità puntuali connesse al tema dell’abitare. Ormai definitivamente chiusa la stagione delle architetture spettacolari e stupefacenti, tanto utili al marketing, ma pochissimo alla vita delle persone, occorre che la cultura architettonica nel suo complesso torni ad occuparsi di temi concreti, case, scuole, ospedali, e così via. Probabilmente la prematura scomparsa di Zaha Hadid, regina incontrastata del fashion design e la contemporanea affermazione di Alejandro Aravena, come direttore della Rassegna di Architettura della Biennale di Venezia e recente vincitore dell’ultima edizione del premio Pritzker  dove peraltro era membro autorevole della giuria dell’edizione precedente segnano incidentalmente, ma non solo, il ritorno ad una riflessione più meditata su temi di interesse sociale. Tuttavia, per quanto inconfessabilmente piacerebbe alla categoria, non sono gli architetti ad orientare i destini della ricerca in ambito progettuale, piuttosto e fortunatamente le reali esigenze della società, i cambiamenti socioeconomici, i cambiamenti climatici, oltre, inevitabilmente, le prese di posizione sul piano politico come quella durissima di Xi Jinping, ormai l’uomo più potente e influente del pianeta, che ha tuonato recentemente contro la spettacolarizzazione dell’architettura invocando un rapido ritorno al pragmatismo in tema di costruzioni. Il severo ammonimento che costituisce una evidente autocritica tutta interna alla Cina non può lasciare indifferente la cultura occidentale alle prese con fenomeni preoccupanti come il sovraffollamento, i fenomeni migratori, l’inabitabilità di molte metropoli d’oggi, la questione della casa e dei servizi tanto per i cittadini stanziali quanto per i nuovi migranti. Come sempre accade nei periodi di cambiamento e conflitto sono le fasce deboli sia sul piano sociale, poveri e disagiati, che generazionale, anziani e bambini, ad avere maggiore necessità di attenzione ed è compito della comunità scientifica, nel senso più ampio e generale, a dover fare la propria parte proponendo modelli positivi in grado di orientare l’agire quotidiano. Senza eccedere nell’autobiografia, anche se le esperienze personali e dirette hanno solitamente più pregnanza ed efficacia sul piano della conoscenza, è la riflessione critica attorno ad un nostro recente progetto il Ceramic Art district di Liling in Cina ad aver sollecitato l’ipotesi di questo numero di Area sull’architettura per l’infanzia.
In effetti a quasi due anni dalla conclusione del distretto l’aspetto più gratificante dell’intero progetto non risiede tanto nell’invenzione tipologica o formale, nelle difficoltà costruttive o tecnologiche, quanto nei disegni e nelle immagini dei bambini provenienti dalle scuole dei villaggi vicini che si sono appropriati di un luogo capace di dare loro intuitivamente il senso dell’identità e della partecipazione ad un mondo che complessivamente li esclude.
Senza retorica ma con un sano pragmatismo, dopo anni di ingenua euforia, è indispensabile che ciascuno nel proprio campo torni a riflettere sulla necessità di lavorare proprio su coloro che sono esclusi dal diritto di abitare, i bambini, gli anziani, coloro che hanno disabilità di qualsiasi tipo così come coloro che sono senza lavoro, senza casa e peggio ancora senza un paese e una patria che non può più accoglierli perché pervasa da guerra e violenza. Per tali motivi la redazione ha avviato da tempo una serie di ricerche (dal 128 Informal Community sull’abitare spontaneo) di cui questo numero dedicato all’architettura per l’infanzia costituisce un’altra importante raccolta di esempi e casi studio utili per comprendere lo stato dell’arte sul tema.

Marco Casamonti

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