L’architettura temporanea, l’architettura della libertà

Non ricordo con esattezza l’anno, ma in una delle mie chiacchierate con Pierluigi Nicolin, storico direttore della mitica rivista Lotus International, mi fece osservare che a suo giudizio la più importante trasformazione architettonica di Milano si materializzava ogni anno in occasione del Salone del Mobile. Una città nella città piena di architetture temporanee, effimere ma bellissime, suadenti, della durata di pochi giorni ma visitata ed abitata da decine di migliaia di persone che percorrendo strade ortogonali a formare una fitta maglia urbana entrano ed escono da una moltitudine di piccoli edifici pensati per esporre e suscitare meraviglia proponendo al mondo il meglio del design su scala planetaria. Onestamente non avevo mai considerato il Salone da questo punto di vista, concentrato come molti sul contenuto, mentre effettivamente il contenitore, per quanto temporaneo, anzi in quanto temporaneo, assume talvolta un significato di straordinario valore architettonico, immaginifico, anticipatorio, carico di quei contenuti di innovazione che si faticano a trovare nelle architetture tradizionali che, correttamente, si pongono il problema della permanenza. Ecco, se analizziamo e affrontiamo il tema del rapporto tra architettura e temporaneità scopriamo che l’idea della brevità ha liberato in moltissime occasioni quell’energia intellettuale capace di far compiere all’architettura straordinari salti in avanti realizzando opere di così alto valore simbolico da richiedere l’ipotesi del loro mantenimento o addirittura spingere per una necessaria, quanto sentita, ricostruzione. Valga per tutti l’esempio del padiglione tedesco progettato da Mies van der Rohe per l’esposizione universale tenutasi a Barcellona nel 1929, demolito nel 1930, per poi essere ricostruito tra il 1983 e il 1986 per celebrare l’importanza dell’ideazione nel panorama architettonico del XX secolo. Ovviamente la più nota delle architetture temporanee, divenuta simbolo permanente ed icona di una città, è la torre progettata a Parigi, sempre in occasione di una Esposizione Universale, quella del 1889, da Gustav Eiffel su cui non serve spendere parole data la notorietà della vicenda. L’elenco di opere architettoniche eccezionali di cui rimangono oggi solo immagini o disegni, data la intenzionale temporaneità della costruzione, è talmente esteso e importante da non consentire a nessuna antologia o volume di storia di trascurarne puntuali sottolineature e descrizioni. La risposta più convincente al più semplice dei quesiti – perché ricordare opere effimere se l’architettura è tra le arti quella che ha più a che fare con l’assioma della durata e della resistenza – risiede proprio nella possibilità che è data alle opere temporanee di liberarsi sul piano ideativo dell’incognita del rischio che condiziona fortemente ogni costruzione che sacrifica al tema della durata e del tempo parte della sua forza creativa. Un’architettura temporanea non è un‘architettura minore, un agire che appartiene a categorie inferiori sul piano artistico e disciplinare, al contrario un’opportunità per sperimentare e sollecitare il tema della libertà espressiva oltre confini consueti. Per questo conviene studiarla ed osservarla con attenzione, e per questo stesso motivo l’osservazione di Pierluigi, ricordata quale incipit di questa riflessione, è pienamente convincente e condivisibile.

 

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